POV Ivan
Le luci della stanza sembrano meno fastidiose adesso. O forse è solo perché ci sei tu, Sole, lì nell’angolo, che mi guardi come se fossi il tuo miracolo personale.
Ma il momento viene interrotto da un medico che entra con passo deciso, accompagnato da un’infermiera che regge una cartella.
«Signor Petrov, ben svegliato,» dice, mentre si avvicina al letto con uno sguardo serio ma sollevato. «Abbiamo bisogno di fare qualche controllo.»
Annuisco appena. Non ho voglia di parlare con lui, ma capisco che è necessario.
«Sa dirmi il suo nome completo?»
«Ivan Andreyevich Petrov.»
Annuisce. «Sa che giorno è oggi?»
Ci penso un attimo. Mi ricordo vagamente che era primavera… poi guardo Sole. Lei fa un mezzo sorriso e mi sussurra: «È lunedì. Due settimane dopo.»
«Lunedì,» ripeto, «due settimane dopo essere quasi crepato.»
Il medico trattiene un mezzo sorriso, poi continua. «Sa dove si trova?»
«Rio de Janeiro. O in paradiso. Ma se ci sei tu, Sole, allora è di sicuro Rio.»
Lei si copre la faccia per non ridere, mentre il medico prosegue, imperturbabile. Mi controlla pupille, riflessi, prende nota di ogni cosa.
«Dolori forti?»
«Sì. Petto, fianco… e un fastidio enorme causato dalle chiacchiere dei medici.»
«Perfetto, ha ripreso anche il senso dell’umorismo.»
Dmitri scuote la testa dietro di lui. «No, quello non l’ha mai perso. Purtroppo.»
Il medico si volta poi verso Sole. «Lei è quella che ha donato il sangue, giusto?»
Lei annuisce. Il medico la guarda con rispetto. «Ha fatto la differenza. Non so come ringraziarla.»
«Non serve,» mormora lei. «Mi basta vederlo così.»
Il medico torna a guardarmi. «Le sue condizioni sono ancora gravi, ma stabili. Avremo bisogno di tenerlo sotto stretta osservazione per qualche giorno, e niente sforzi. Niente stress. Niente colpi di testa.»
«E niente sparatorie,» aggiunge Sole, guardandomi seria.
«Vedrò cosa posso fare,» sussurro, stringendole piano la mano.
La porta si chiude piano alle spalle del medico e di Dmitri. Finalmente, il silenzio.
Sole è ancora lì. Mi guarda come se non sapesse se piangere o sorridere. E io… non riesco a smettere di guardarla. È come se fosse cambiata, come se fosse più forte. Più bella, cazzo, se possibile ancora più bella.
«Vieni qui,» le mormoro, con la voce bassa e roca. Non ho molta forza, ma bastano quelle due parole per farla avvicinare. Si siede piano sul bordo del letto, quasi temesse di farmi male.
«Non ti avvicinare troppo, che potrei approfittarne,» le sussurro, un mezzo sorriso sulle labbra.
Sole alza gli occhi al cielo. «Sei mezzo morto, ma hai sempre la testa dove non batte il sole.»
«Quando ti vedo vestita così, non mi serve nemmeno il cuore che funzioni bene.» Le passo una mano tremante lungo il fianco, sfiorandola piano. «E poi mi hai salvato la vita… ora tecnicamente sei mia.»
Lei ride piano, ma gli occhi le si riempiono di lacrime. «Idiota.»
«Il tuo idiota, giusto?»
Non dice nulla. Si limita ad avvicinare il viso al mio, le sue dita che si intrecciano alle mie. Il suo profumo mi riempie il petto, anche più dell’ossigeno che mi danno quei tubi maledetti.
«Mi sei mancata, Sole. Anche se non riuscivo a muovermi, ti sentivo. Ogni parola. Ogni cazzo di carezza.»
Lei posa la fronte sulla mia. «Non farmelo più, Ivan. Non sparire così. Non morire. Non lasciarmi.»
«Mai. Nemmeno da morto.»
Lei sorride, finalmente. Un sorriso vero. Uno di quelli che mi fanno sentire che vale tutto: le ferite, il dolore, l’inferno.
«Quando mi rimetto in piedi, ti porto via da qui. In un posto dove nessuno può toccarti. Dove siamo solo noi due.»
«Ti basto?»
«Mi basti. Mi salvi.»
E stavolta è lei che si avvicina e mi bacia piano sulla fronte, sulle tempie, sul naso. E poi resta lì, la sua fronte contro la mia. Senza parole. Perché tra noi, adesso, parlano solo i silenzi.
È passata qualche ora da quando i medici sono usciti e il silenzio della notte è sceso sulla stanza. Le luci sono soffuse, il bip dei macchinari è costante ma stranamente rassicurante. Sole è ancora qui. Non si è mossa nemmeno per un secondo.
È seduta accanto a me, la testa poggiata al bordo del letto, la mano stretta nella mia. Ha cercato di resistere, l’ho vista lottare contro la stanchezza, ma alla fine si è addormentata così. La sua guancia poggiata al mio braccio fasciato. I capelli sparsi. Respira piano, regolare. E io… non riesco a distogliere lo sguardo da lei.
In un mondo che mi ha sempre tolto tutto, lei è l’unica cosa che non voglio perdere.
Le passo lentamente le dita nei capelli, piano, quasi a non volerla svegliare. È così calma, così bella. Anche in questo casino, anche in un ospedale del cazzo, lei riesce a portare pace.
Mi piego leggermente, con fatica, e sfioro la sua fronte con le labbra. Non la sveglio. Ma so che mi ha sentito, perché sorride nel sonno e stringe un po’ di più la mia mano.
«Ti amo,» sussurro piano. « Anche se io stesso non so come cazzo si fa.»
Chiudo gli occhi anch’io, ancora esausto. Ma con lei accanto, il dolore sembra più sopportabile. Il mondo meno sporco. E forse, solo forse, c’è qualcosa per me oltre il sangue e le vendette.
Con Sole addormentata al mio fianco, per la prima volta da anni… mi sento al sicuro.
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Un raggio di sole filtra dalla finestra dell’ospedale, colpendo in pieno la mia faccia. Socchiudo gli occhi, fastidito. Il dolore è ancora lì, ma più sordo, più distante. Poi sento qualcosa di caldo stringere la mia mano… e allora ricordo.
Abbasso lo sguardo. Sole è ancora lì, rannicchiata accanto al letto, con la testa piegata e le dita intrecciate alle mie. Dorme ancora, ma si muove piano, come se stesse svegliandosi. Ha i capelli spettinati e la pelle segnata dal cuscino improvvisato. Ma per me è bellissima.
Mi schiarisco piano la voce. «Buongiorno, piccola.»
Lei apre gli occhi lentamente, spaesata per un secondo. Poi mi guarda, e il suo volto si illumina. «Sei ancora qui…»
«E dove cazzo vuoi che vada?» le sorrido con un filo di voce. «Sei tu che hai dormito tutta la notte come un gattino addosso a me.»
Lei ride piano, strofinandosi gli occhi. «Non è colpa mia se sei comodo.»
«Comodo?» alzo un sopracciglio. «Mi hanno sparato due volte, mi hanno aperto in due, e dici che sono comodo? Hai uno strano concetto di comfort.»
Sole mi lancia un’occhiata maliziosa, ancora assonnata. «Hai detto che mi volevi accanto. Ora tieniti il pacchetto completo.»
Sorrido. Lei si avvicina e mi dà un bacio leggero sulla guancia, poi mi guarda seria.
«Come ti senti davvero, Ivan?»
«Come uno che ha perso due litri di sangue, ha un polmone bucato e… la ragazza più testarda dell’universo accanto.» Le sfioro la guancia. «Ma sai una cosa? Non cambierei un cazzo.»
E questa volta è lei a baciarmi per davvero.
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Qualche giorno dopo, ritorno a casa
Appena il cancello si apre e la macchina oltrepassa la soglia della villa, sento un nodo salirmi in gola. Non è debolezza, non lo ammetterei mai… ma tornare vivo in questo posto dopo tutto quello che è successo mi sembra quasi irreale.
Dmitri guida in silenzio. Sole è accanto a me, la mano nella mia. Non la lascia un secondo. Da quando mi hanno dimesso dall’ospedale si è incollata a me come se avesse paura che potessi sparire di nuovo da un momento all’altro. E io, cazzo, non riesco a lamentarmi.
Scendiamo. Le guardie si avvicinano per salutarmi, visibilmente sollevate. Alcuni abbassano lo sguardo, come se non si aspettassero davvero che tornassi. Ma io sono ancora qui.
Vivo.
Sole mi aiuta a entrare, anche se cerco di sembrare forte e autonomo. Ma la verità è che ogni passo è una fottuta fatica. Eppure, quando mi accompagna fino alla mia stanza e mi fa sedere sul letto, la sua sola presenza mi fa sentire… a casa.
Lei si siede accanto a me e mi guarda seria.
«Hai bisogno di qualcosa?» mi chiede.
«Solo di te.» rispondo senza pensarci.
Lei abbassa lo sguardo, arrossendo un po’. «Sei ancora sotto effetto dei farmaci, Petrov.»
«No. Sto solo dicendo la verità.»
Un silenzio leggero si posa su di noi, ma è pieno. Pieno di tutto quello che non abbiamo detto nei giorni in ospedale, pieno di respiri trattenuti, di paure, di promesse non fatte… ma sentite.
«Hai avuto paura?» le chiedo, rompendo il silenzio.
Sole mi guarda. «Ho avuto il terrore. Ma non lo saprai mai del tutto. E tu?»
«Ho avuto più paura a non vederti più… che a morire.»
Lei scuote la testa, si alza e si sistema sulle mie ginocchia, con delicatezza. «Allora, non farmi mai più vivere una cosa del genere. Mai più.»
Le appoggio una mano sul fianco. «Mi impegnerò a restare vivo, promesso. Ma con te vicino… sarà più facile.»
--un'ora dopo
La stanza è silenziosa, troppo. Ho appena chiuso gli occhi per un momento, cercando di respirare senza sentire dolore, quando la sento entrare. Sole. I suoi passi sono decisi, rabbiosi. Non quelli di una che viene a coccolarti mentre stai guarendo.
Apro gli occhi. Lei è in piedi davanti a me, le braccia incrociate, lo sguardo che brucia.
«Dobbiamo parlare.»
Non è una richiesta. È una sentenza.
Inspiro piano. «Parla.»
«Io non ce la faccio più, Ivan.»
Le sue parole mi colpiscono più forte di qualsiasi proiettile. Resto zitto, in attesa.
«Non posso vivere così. Non posso vivere con la paura che ogni volta che chiudi quella porta sia l’ultima. Non voglio più sangue, armi, ferite, medici che non sanno se tornerai vivo o no. Non è vita questa.»
La guardo, cercando di restare calmo. «Lo so. Ma questo è il mio mondo.»
«No, Ivan. Era il tuo mondo. Adesso ci sono io. O almeno… ci sono stata fino a ora.»
«Sole—»
«Lascia la mafia. Lascia tutto. Vieni via con me. Spariamo. Cambiamo tutto.»
Le parole mi paralizzano. Vorrei volerlo. Cazzo, forse lo voglio davvero. Ma…
«Non posso.»
La sua faccia si irrigidisce. Fa un passo indietro.
«No, Ivan. Non è che non puoi. È che non vuoi. Ti piace questo schifo. Ti senti forte, potente. Ma io… io voglio solo una vita normale. E se tu non sei disposto a mollare tutto per stare con me, allora vuol dire che non mi ami abbastanza.»
«Non è così semplice!» sbotto, alzando la voce. «Non è una porta che chiudi e basta. Ci sono persone, legami, obblighi. Uomini che contano su di me. Non posso sparire nel nulla.»
«Allora continua pure a essere il re di questo mondo malato. Ma fallo da solo.»
La sua voce si spezza. Gli occhi le brillano, ma non piange. Non davanti a me. Fa per voltarsi, ma io afferro il bordo del cuscino con rabbia.
«E tu saresti quella che mi ama? Mi lasci nel momento in cui ho più bisogno di te?!»
Lei si gira di scatto, ferita. «No, Ivan. Ti sto dando la possibilità di scegliere. Tra me… e tutto questo. E stai scegliendo questo.»
E poi se ne va. Non sbatte la porta. Non urla. Solo… se ne va.
E il silenzio che lascia dietro di sé è assordante.
Mi alzo dal divano della stanza, ancora dolorante, ma ogni passo che faccio è carico di rabbia e delusione.
La trovo in corridoio, il respiro spezzato, gli occhi lucidi.
«Dove cazzo vai?!» ringhio.
Sole si gira di scatto, la mascella tesa. «Vado via. Perché se resto qui un altro secondo, potrei iniziare a odiarti.»
«Che cazzo stai dicendo?!»
Le vado incontro, il dolore alla ferita che tira, ma lo ignoro. «Dopo tutto quello che ho passato, dopo tutto quello che abbiamo passato… te ne vai così?»
«Sì. Perché non ce la faccio più!» urla.
«Io voglio vivere, Ivan! Non voglio più avere paura ogni volta che suonano alla porta, ogni volta che non ti vedo tornare, ogni volta che sento un rumore nella notte. Questa non è vita. È una condanna.»
Mi avvicino, il viso a pochi centimetri dal suo. «E cosa vuoi da me? Che butti via tutto? Che sparisca e faccia finta di non essere chi sono?»
«Sì!» dice senza esitazione.
«Voglio che tu lasci tutto. La mafia. Le armi. La morte. Voglio che tu scelga me. Una vita vera. Oppure smettila di farmi credere che ti importi qualcosa.»
Mi prende in pieno. Come un colpo sparato al petto, stavolta dritto al cuore.
La guardo, il respiro corto. «Non capisci…»
«No, Ivan. Sei tu che non vuoi capire!»
Si allontana, le lacrime che scendono libere. «Non voglio più vivere in questa casa se significa guardarti marcire giorno dopo giorno in un mondo che ti sta uccidendo.»
«Questa casa è l’unico posto dove posso proteggerti!»
«Non ho bisogno di una gabbia dorata, ho bisogno di un uomo che abbia il coraggio di cambiare! Ma tu… tu sei solo un codardo che si nasconde dietro il sangue.»
Mi gelano le sue parole.
Lei prende la giacca. «O lasci tutto, o lasci me.»
Resto lì. Immobile.
Non faccio nulla.
E allora capisco: l’ho persa.