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7. Sta per diventare una scena del crimine?

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Questo vuol dire che sono senza il mio compagno di allenamenti.

Alterno scatti e saltelli intorno ai coni insieme agli altri e li guido negli esercizi esplosivi per migliorare la reattività e la potenza muscolare, mentre mi chiedo dove sia finito quel coglione di Hastings.

È un corridore in gamba, non sarebbe il capitano altrimenti, ma c'è un motivo se il leader dei velocisti sono io e non lui. La presenza, innanzitutto.

All'ennesimo fischio dall'altro lato però, sono costretto a fermarmi per gettargli un'occhio.

Il coach lancia il blocchetto a terra e si muove verso Cassidy, che sembra ancora più frustrata e la ramanzina non migliora affatto la cosa.

Guardo i miei compagni. «Continuate. Altre cinque ripetizioni e poi iniziate le serie di sprint».

Raggiungo le spalle del coach qualche secondo dopo, quando Cassidy solleva gli occhi su di me sbuffa rumorosamente.

«Che succede?»

Ericson, con le braccia sui fianchi, mi guarda sospirando, poi raccoglie da terra il suo blocco. «Guarda questi tempi».

Li ho già visti tutti, ma fingo di studiarli di nuovo. Poi fisso Cassidy dritta negli occhi. «Che hai?».

Lei mi guarda storto, poi distoglie lo sguardo. «Non ho nulla. Forse mi sono scaldata poco, adesso mi riprendo. Riproviamo».

«Brooks, ho altre quattro velociste a cui star dietro non poss-»

«La alleno io coach». La frase mi esce di bocca prima che possa impedirmelo.

Cassidy mi guarda infuriata, no davvero sembra abbia voglia di staccarmi la testa e mettersela sul comodino, ma la ignoro.

«Solo per oggi. La porto in palestra e cambiamo metodo. L'abbiamo visto tutti quel B standard alle selezioni l'altro giorno e i tempi di ieri erano sulla stessa linea. Le brutte giornate capitano a tutti».

Il coach si passa una mano sulla testa, guardando le altre velociste e staffettiste che si scaldano in attesa del loro turno di sprint.

Annuisce, battendomi una mano sulla spalla. Un attimo prima di andarsene si avvicina ad una scatola di cartone a bordo campo.

«È arrivata la tua maglia Cassidy. Numero 3 femminile». La allunga verso di lei, che la afferra studiandola con espressione già più felice. «Non ho alcuna intenzione di riprendermela da qui a quando ti laureerai Brooks, quindi dimostrami di meritartela».

Ci sono più palestre al campus di Stanford ma quella in cui porto Cassidy è in assoluto la mia preferita. Di solito ci vengo la sera, finiti gli allenamenti sul campo per gli ultimi esercizi e per il defaticamento.

Poche volte c'ero stato in pieno pomeriggio finora, ma la luce che entra dagli ampi finestroni alla parete rende l'ambiente chiaro e perfetto.

Cominciamo con i pesi. Sessioni di squat e affondi, seguiti da esercizi a terra, principalmente plank dove scopro che Cassidy potrebbe stare ore senza alcun cenno di cedimento. È più forte di quanto pensassi, ma non apre bocca per tutto il tempo che passiamo lì dentro e l'unico suono, visto che questo posto è deserto adesso, è la mia voce che le conta i secondi o le ripetizioni.

Oltre ad allenarla però la studio. Guardo le emozioni che le cambiano sul viso, alternando fastidio a rabbia e ad imbarazzo. Lascia cadere a terra i pesi come se volesse spaccare il pavimento. Durante gli addominali stringe la mandibola così tanto che temo le cadranno i denti.

Quando termina un altro squat e lancia a terra il bilanciere, fa per afferrarlo di nuovo e ripartire ma io ci premo un piede sopra.

Solleva piano la testa su di me, da là in basso.

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