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Eppure resta che qualcosa è accaduto, forse un niente che è tutto.
-Eugenio Montale.
Delia
Prima di oltrepassare la soglia della porta, mi fermo per qualche secondo.
Devo essere forte, devo dimostrare sia ad Alexander che a me stessa che posso farcela, che posso affrontare a testa alta anche un uomo come lui.
Lui non alza lo sguardo, è seduto dietro la sua scrivania ad osservare delle carte.
Educato, a quanto pare.
Il suo ufficio me lo aspettavo più grande, credevo che avesse bisogno di uno spazio abnorme solo per farci rientrare il suo ego, ma invece è una stanza di medie dimensioni.
È tutto prettamente sulle tonalità del grigio e del nero, non c'è nemmeno un pizzico di bianco che da luce all'ambiente.
Se non fosse per le enormi vetrate, probabilmente quella stanza sembrerebbe una specie di cimitero moderno.
La sua scrivania è trasparente, di vetro, e mi permette di vedere la posizione in cui è seduto.
Le linea perfetta delle spalle scende fino a stringersi nel punto vita, che riconduce alle gambe ben tese e ai piedi ben saldi a terra.
Statico come un gran blocco di marmo, se non fosse per il rigonfiamento del petto, fasciato da una semplice camicia bianca, che regolarmente si alza e si abbassa, come se volesse dimostrarmi che è un essere vivente anche lui.
Difficile crederci in queste circostanze.
Ancora non si degna di rivolgermi uno sguardo, il sangue inizia a ribollire nelle mie vene ma decido di mantenere la calma e di schiarirmi la voce per richiamare la sua attenzione.
«Buongiorno, signor Harris, io sono la signorina-»
«Foster, prego si accomodi», termina la frase lui per me, ancora tenendo lo sguardo su quelle scartoffie.
Mi avvicino alla scrivania e sposto leggermente la sedia girevole in pelle nera per sedermi.
Nella stanza regna il silenzio, si sente solo il rumore dei miei tacchi e lo scricchiolio della pelle ad ogni mio movimento, seppur impercettibile.
Dopo qualche secondo, finalmente alza lo sguardo, facendo scendere i suoi occhi su tutto il mio corpo in un baleno.
Un leggero sorriso gli compare sul volto dopo aver terminato la sua 'breve ispezione'.
«Noto con piacere che oggi le sue mani sono libere, signorina Foster.»
Fa un breve cenno alla mia figura.
«Per mia fortuna», aggiunge sottovoce con il capo chinato, come se non stessimo a due metri di distanza in una stanza insonorizzata e non sentissi ogni suo singolo sospiro.
Cerco di rimanere impassibile, di non modificare in nessun modo l'espressione del mio volto.
Voglio dare tutta me stessa, e lo farò.
Lui vuole giocare? Allora si aprono le danze.
Accavallo le mie gambe, per fargli intendere che sono pienamente a mio agio e la sua presenza non è un motivo di sconforto, per me.
La gonna, già non troppo lunga, risale sulla coscia lasciando scoperta qualche porzione di pelle in più, appena sotto il fianco, dove i suoi occhi ricadono in una frazione di secondo.
«Ed io invece noto con dispiacere che lei è un tipo molto rancoroso, signor Harris. A proposito, è riuscito a smacchiare la sua camicia oppure le ha già reso onore come un soldato caduto in battaglia?»
Non risponde, ma non distoglie lo sguardo.
Passa velocemente la lingua sul labbro inferiore per poi riportare l'attenzione sul foglio, che sembra essere il mio curriculum.
«So che lei e mio fratello avete già parlato, quindi mi viene spontaneo chiederle una cosa, se mi permette.»
Aspetto che finisca di parlare, non credo che a lui importi del mio permesso per porgermi una domanda.
«Cos'è che l'ha spinta a venire qui oggi? Le sue ambizioni oppure è stata ammaliata dalle tecniche di seduzione di mio fratello?»
Nella sua voce noto un pizzico di ironia, quasi come se volesse insinuare qualcosa.
Ma come osa...
No.
Che senso avrebbe se mi arrabbiassi ora?
Io non solo devo stare al suo gioco, io devo vincerlo.
«Devo dire che suo fratello ha ottime capacità persuasive», aggiungo con una risatina sommessa. «Ma se oggi sono qui è per raggiungere i miei obiettivi.»
Ed è vero.
Almeno in parte.
Mi servono soldi, tanti soldi, e questo è l'unico modo per ottenerli velocemente.
Perché ne ho bisogno? Perché voglio prepararmi artisticamente.
Voglio frequentare dei corsi di formazione per migliorare le mie linee.
Voglio esprimere me stessa su una tela e voglio che le persone che la vedono vengono pervase dalle mie stesse sensazioni.
Ma per raggiungere tutto ciò, ci sono dei costi ben precisi. Costi che non posso permettermi, ora come ora.
Lui mi guarda, con fare confuso. «Quindi mi sta dicendo che il suo obiettivo è lavorare alle Harris Industries?» Assume un'espressione pensierosa, come se stesse cercando di ricordare qualcosa per poi realizzare. «Se la memoria non m'inganna lei fino a due settimane fa non sapeva nemmeno chi fossi», le sue labbra si piegano in un ghigno divertito.
Che gran figlio di puttana.
Vuole mettermi a disagio, l'ho capito dal momento in cui mi ha guardata con quell'aria vendicativa.
Come cazzo fa a ricordarsi tutte le mie parole?
Credevo avesse la mente piena di tutte quelle cose di cui parlano gli uomini d'affari.
«Non ricorda male, signor Harris. Il mio obiettivo in effetti non è quello di lavorare in un'azienda come questa.» Poggio i gomiti sulla scrivania portando il mio busto in avanti e incrociando le dita delle mani su di essa. «Il mio obiettivo è fare della mia passione un vero e proprio lavoro. Un business, se così lo vogliamo chiamare. In un certo senso vorrei diventare un'imprenditrice, ma non una qualunque. Lo vorrei fare portando avanti ciò che più amo.»
Lui mi guarda, confuso, forse non riuscendo a capire il collegamento tra ciò che ho appena detto e la sua azienda.
«Beh, per farlo mi servono soldi. E credo che lei sappia meglio di me quanto sia difficile trovare una paga così alta, soprattutto se si è così giovani», continuo, spiegandomi meglio.
Dà un'altra occhiata al mio curriculum, come se stesse cercando qualcosa.
«Perché dovrei assumerla? Cos'è che la distingue degli altri candidati, signorina Foster? Sempre se ci sia qualche tratto distintivo nella sua persona, ovviamente», mi chiede inchiodando i suoi occhi nei miei.
Solo ora mi accorgo che ha le guance rasate e ben lisce, che risaltano ancor di più l'angolo ottuso che delinea la sua mascella.
Anche le labbra risaltano, sembra che un filo di barba non possa cambiare nulla, eppure mi pare tutto così diverso.
Forse perché ha un'espressione serena e ho il suo viso difronte al mio, a pochi centimetri di distanza.
Deglutisce mettendo in evidenza il pomo d'Adamo già ben visibile di suo, forse essendosi accorto del fatto che lo stia osservando meglio.
«Vuole davvero sapere il mio tratto distintivo? Io farei di tutto per ottenere ciò che voglio, sarei disposta a sottopormi alle peggiori delle fatiche pur di vedere il sogno che ho fin da bambina realizzarsi dinnanzi ai miei occhi.»
Inclina la testa leggermente, curioso delle mie parole.
«Cosa mi distingue dagli altri? La determinazione. Il novanta percento delle ragazze che sono venute qui oggi probabilmente desideravano solo farsi notare da un uomo affascinante come lei, l'altro dieci percento sono ragazze che credano che basti avere solo una grande intelligenza per lavorare. Per quanto riguarda i ragazzi, se non rientrano nelle due categorie che ho appena elencato, vorranno vantarsi con tutti i loro amici di avere il nome delle Harris Industries nel loro curriculum, e ora lei è costretto a scegliere una parte di loro, anche se minima», sputo tutto ad un fiato, non avendo nemmeno il controllo delle parole che ho usato.
Ho esagerato, ma è necessario farlo quando vuoi ottenere qualcosa con tutta te stessa.
Oddio.
Gli ho appena detto che è affascinante?
Cazzo, sono una cogliona.
Non arriva nessuna risposta, ma non cedo e non permetto al panico del momento di sovrastarmi.
Non so per quanto la mia pazienza possa sopportare tutto questo, quindi, per incitarlo a dire anche una semplice parola, aggiungo: «Le basta come risposta signor Harris?»
«Lei poco fa' ha menzionato una sua passione, per la quale, da quanto ho capito, prova un amore viscerale, giusto?» Ignora la mia domanda, facendo rifermento al quesito precedente.
«Si, è giusto», non mi dilungo troppo, sapendo già cosa sta per chiedermi.
«A cosa si riferisce?»
Lo sapevo.
Non credo che possa essere utile ai fini del colloquio quest'argomento, forse qualcuno qui è particolarmente curioso.
«All'arte, precisamente mi riferisco alla pittura. Sono innamorata di tutto ciò che riguarda l'arte. In altre parole potrei dire che sono innamorata della vita. Tutto ciò che ci circonda è una forma d'arte, lei non crede?» Gli chiedo, sviando il discorso come ha appena fatto lui.
Pare soddisfatto di ciò che ha appena sentito, quasi sorpreso della mia spontaneità.
«Giusta osservazione signorina Foster.» Rimane qualche secondo in silenzio, scrutandomi con attenzione. «Qual è l'elemento, o la persona, grazie alla quale si è avvicinata al mondo della pittura? Perché un giorno qualsiasi ha deciso di rendere i suoi scarabocchi qualcosa di significativo e non delle semplici linee confusionarie?»
Mi irrigidisco al solo pensiero.
Non saprei dare una risposta ben definita, molti mi prenderebbero per pazza.
Ma io credo sia genetica, c'è un qualcosa che scorre nelle mie vene che mi tiene così legata a quelli che per tutti sarebbero dei colori banali.
Nessuno riuscirà a distogliermi dall'idea che sia stato mio padre a tramandarmela, come se l'arte fosse l'unico nostro mezzo di comunicazione.
Come se solo grazie ad essa noi potremmo in qualche modo comunicare.
Come può mancarmi qualcuno che non ho mai incontrato?
Qualcuno di cui non so nulla, se non dei racconti frammentati di mia madre.
Sono cresciuta in una casa piena di suoi dipinti, di suoi ritratti.
Attraverso quelli ho imparato a conoscere mio padre.
Ho iniziato provando a riprodurre le tele che preferivo di più. E pian piano, giorno per giorno, il mio legame si rafforzava, creando qualcosa di indissolubile.
Sono ricordi che non ho mai raccontato a nessuno, se non a Lynn.
E indubbiamente non sarà Alexander Harris il prossimo.
«Preferisco non rispondere a questa domanda, la ritengo fin troppo personale.»
La sua mascella si indurisce, riporta lo sguardo su quel dannato foglio -che in tutto questo reggeva ancora tra le mani- per poi chiedermi: «Perché non l'ha scritto sul curriculum?»
Cosa cazzo dovevo fare, allegargli anche qualche foto delle mie tempere?
«Non credevo che le mie passioni potessero interessargli così tanto, signor Harris.»
«Questo lo lasci decidere a me.»
Sono stufa.
Stufa di ascoltare le sue domande inutili e di restare qui pur essendo consapevole che non avrò mai una possibilità.
Perché non mi manda via?
Porto l'attenzione sull'orologio appeso alla sua destra, e mi accorgo che sono passati più di quindici minuti.
Gli altri colloqui duravano al massimo sette minuti, o almeno così devo aver cronometrato.
Nessuno dei due parla, io guardo lui, lui guarda i miei dati.
Cristo, era davvero così lungo quel dannato curriculum?
Ne approfitto per osservarlo meglio.
Ogni parte del suo corpo è inspiegabilmente divina, anche le sue lunghe dita, che avvolgono con cura quel pezzo di carta.
Credo che Alexander Harris faccia la manicure, le sue cuticole sono ben tagliate e le unghie sembrano essere limate tutte alla perfezione in egual modo.
Questa volta non porta la giacca, probabilmente per il caldo incessante, e solo ora noto quanto siano ben sviluppati i suoi muscoli.
Ogni. Singolo. Muscolo. Visibile.
Iniziando dall'alto, dall'elevatore della scapola fino ad arrivare all'avambraccio.
I suoi tricipiti, nonostante siano notevolmente definiti, vengono nascosti frontalmente dai bicipiti, a loro volta messi in evidenza dalla camicia chiaramente più aderente in quel punto.
«Le manca Chicago?»
Questa volta il suo tono di voce è diverso, meno burbero e più sereno.
Mi sento confusa, stordita dalla domanda.
Cosa c'entra con tutto questo?
Cosa interessa a lui se mi manca o meno Chicago?
«Non riesco a comprendere bene il motivo di questa sua domanda, signor Harris, non vedo come possa esserle utile. Comunque no, non mi manca per nulla, e spero di non ritornarci più. Non ho nulla di bello da ricordare in quel posto. Ha finito con le sue domande scomode?»
Ho solo brutti ricordi che mi legano a quella città.
Chicago mi ricorda la morte di mio padre.
Anche se non l'ho vissuta, ma non avere mai avuto la possibilità di conoscerlo è un'idea che mi tormenta tutte le notti.
Forse sarebbe stato un padre e un compagno di vita stupendo, e mia madre non avrebbe iniziato a drogarsi.
Forse non avrei mai saputo cosa si prova sentire mani indesiderate sul proprio corpo, non avrei mai capito il disagio di portare costantemente il segno di una cicatrice che non andrà mai via.
Riesco ancora a sentire le sue dita farsi spazio nella mia ferita.
Riesco ancora a sentire le sue parole, la sua voce che mi sussurra all'orecchio.
Quali dovrebbero essere i bei ricordi che mi legano a Chicago?
Lynn è l'unica cosa bella che la vita mi abbia mai regalato, ma fortunatamente lui è qui con me, a New York.
Ed io alla mia città natale non devo proprio nulla.
Il suo viso cambia.
I suoi tratti si induriscono e raddrizza le spalle, che nel frattempo si erano chinate.
«Le domande finiscono quando lo decido io. Inoltre, credo che il suo sia un pensiero molto superficiale. Non avere bei ricordi non è un motivo per denigrare la città da cui proviene», mi risponde con tono sprezzante.
«Questo lo lasci decidere a me», uso la stessa risposta scorbutica che mi ha riservato poco prima.
Cosa gliene frega a lui cosa ne penso io della mia città?
Non sono affari suoi e non sa nulla del mio vissuto. Non ha nemmeno la minima idea di cosa ho dovuto attraversare in quel periodo della mia vita.
Perché quest'uomo è capace di rendere ogni momento così terribilmente difficile?
Distoglie lo sguardo da me e ritorna a sistemare quella che è la sua scrivania, come se io non fossi lì.
Ricordo che Lynn quella sera mi disse che lui era cresciuto a Chicago, quindi probabilmente si sarà offeso, ma doveva aspettarselo.
Non è il tipo di domanda che si pone durante un colloquio professionale, e so benissimo che lui ne è perfettamente consapevole.
C'è un motivo per il quale me l'ha chiesto, qualcosa di fin troppo profondo persino per lui.
Inaspettatamente si alza con maestria, facendo attenzione a spostare la sedia lentamente.
Riposa dei documenti in delle cartelle e ripone in ordine tutto ciò che è presente sulla scrivania.
Allinea le penne in verticale, facendo attenzione che siano poste alla stessa distanza.
Sposta qualche oggetto, alcuni di pochi millimetri, come se stesse architettando il tutto secondo una precisa simmetria.
Cosa diavolo sta facendo?
Sembra che stia per andarsene, e ancora deve nemmeno dirmi l'esito del colloquio.
Dopo aver finito e aver posizionato ogni elemento secondo il suo esatto ordine, poggia le mani sul piano, richiudendole in un pugno così stretto che la pelle sottile che ricopre le nocche inizia a sbiancarsi.
Lo guardo ancora seduta, la sua figura è più vicina e quindi mi ritrovo costretta ad alzare il mento per puntare i miei occhi nei suoi.
Come fa ad essere così esageratamente attraente anche dal basso?
Non lo so, non chiedetelo a me.
Lascia cadere i suoi occhi su tutto il mio corpo, arrivando nei miei.
«Se decidessi di darle una possibilità signorina Foster, lei crede che sarebbe all'altezza?» Lascia fluire quelle parole demoralizzanti come se non avessero alcun peso.
Ho passato tutta la vita a chiedermi se fossi all'altezza di qualsiasi cosa o persona che incontrassi nel mio percorso.
Ma ho smesso di farlo.
A me non manca nulla: sono intelligente, determinata, ambiziosa, modestamente attraente e aperta a tutti i tipi di relazioni sociali.
Vuole spaventarmi.
O vuole che io mi metta ad urlare, cosa che desidero disperatamente fare in questo momento.
Mi guarda sfidandomi, soddisfatto del modo in cui la sua domanda mi abbia spiazzato.
Sollevo la mia gamba per sedermi con entrambe le gambe unite sulla sedia, per poi alzarmi e sporgermi verso di lui.
Sposto con il tacco la poltroncina dietro di me, senza nemmeno girarmi, mentre poggio le mani aperte sul vetro freddo sottostante, ritrovandomi così ancora più vicina al suo viso.
«Sa cosa credo io, signor Harris?» Gli chiedo retoricamente, lasciandogli intendere che avrei continuato a prescindere dalla sua risposta.
«Io credo che semmai lei decidesse di darmi una possibilità, avrebbe paura di vedere un lato di me che non è pronto a scoprire.»
Le sue labbra si stringono a causa della forza applicata sulle mandibole per serrarle.
«Forse avrebbe paura di non riuscire a controllare la sua curiosità. Se così la vogliamo chiamare», sussurro l'ultima frase piena di ironia.
Non so nemmeno io cosa stia facendo, ma capisco che sto agendo nel modo giusto quando mi rendo conto che lui si sta innervosendo.
Lo vedo dagli occhi, dal modo in cui respira e dalla sua palpebra che si muove più velocemente di come dovrebbe.
«Non vedo perché io debba essere curioso sul suo conto.»
Incoerente.
«Chissà perché è stato così poco professionale allora, signor Harris», fingo di essere quasi dispiaciuta. «Se la memoria non m'inganna -scimmiotto imitandolo- è stato lei a chiedermi di parlare di argomenti inerenti alla mia vita privata, piuttosto che lavorativa. O sbaglio?»
«Le ho già detto che le domande iniziano e finiscono quando lo dico io.»
«Non ho ancora finito. Io credo, che se decidesse di darmi una possibilità, avrebbe paura lei di non essere all'altezza», riprendo il filo del mio discorso, ignorando completamente il suo inutile intervento.
Solo ora noto il suo profumo speziato, una fragranza mai sentita prima.
Allarga le narici e sospira increspando le sopracciglia.
«Sta delirando signorina Foster. Io sono in grado di sostenere qualsiasi cosa, a differenza sua, che a quanto pare non riesce nemmeno a resistere per qualche ora senza soddisfare il suo bisogno di nicotina. Ha fumato prima di entrare, vero?»
Davvero vuole cambiare discorso facendomi notare di aver infranto le regole?
Maledetto figlio di puttana.
«Ho fumato prima di entrare nell'azienda, gli interessa anche sapere l'orario?»
Scoppia in una risata, e un'ondata di menta mi travolge i sensi.
Dei piccoli solchi gli scavano le guance, delle fossette che non avevo mai notato prima.
Da così vicino riesco a scorgere anche una leggera imperfezione nel suo sorriso.
Temevo fosse creato da un'intelligenza artificiale, Dio, grazie per avermi dimostrato che anche lui è un essere umano.
«Scommetto che abbia fumato in bagno, ma come immagino lei già sappia è vietato.»
Rimango in silenzio.
Non mi importa che l'abbia scoperto, non ho di certo commesso un crimine per cui dovrei sentirmi colpevole.
Piega la testa quasi impercettibilmente e schiude le labbra.
«Prima mi manda a quel paese con tutta la sua sfacciataggine, poi si presenta qui senza alcun timore e addirittura infrange le regole nella mia azienda. Insomma, è evidente.» si avvicina ancora di più, arrivando a far sfiorare quasi le punte dei nostri nasi, che si trovano quasi sulla stessa linea del piano grazie ai miei tacchi interminabili. «Anche un pover'uomo cieco e non udente sarebbe capace di fiutarlo.»
Sento una gocciolina scendermi lungo la tempia, e solo ora mi accorgo di quanto io sia sudata.
Da quanto stavo sudando?
Avrò lasciato il segno sulla sedia?
Cazzo, le mie mani sono sulla scrivania...
L'imbarazzo mi assale, seccandomi la gola e le labbra.
Probabilmente le mie guance saranno rosse, ma devo ammettere che l'artefice di tutto ciò non è solo il caldo.
La sua vicinanza scatena qualcosa capace di accendere un desiderio in me primordiale, innato.
La sua imponenza mi imbarazza, mi spoglia di tutta la mia sicurezza e mi rende insignificante, seppur inconsapevolmente.
Deglutisco fin troppo sonoramente, richiamando l'attenzione di Alexander sul mio collo, e bagno di saliva le mie labbra sperando di non sembrare sul punto di svenire.
«Specifichi bene cosa intende per 'fiutare'», sta volta, nonostante i miei sforzi per nascondere il disagio, la mia voce risulta insicura rispetto ai minuti precedenti.
«A lei piace il proibito, signorina Foster. Ne è terribilmente attratta. Si nota dai suoi gesti, dai suoi sguardi e dal modo in cui le sue parole, non sempre graziose, fuoriescono dalle sue labbra. Lei adora mettersi nei guai. L'adrenalina del rischio è la sua linfa vitale.»
Sento le gambe tremare, già poco stabili date le scarpe, e cerco di sorreggermi saldamente sulla scrivania.
Incapace di controbattere, ritorno con la mente a qualche settimana fa', quando si avvicinò e sussurrò quelle poche parole al mio orecchio.
Le sensazioni sono le stesse.
Il cuore batte così violentemente che sento le vene pulsare in tutti gli angoli nascosti del mio corpo.
Accenna un ghigno divertito, probabilmente è il suo modo di reagire al mio respiro pesante, palese ai suoi occhi data la vicinanza.
«Mi duole informarla però», riprende a parlare facendomi perdere un battito «che questo non è un gioco. Non è una sfida. Se ha voglia di giocare, le consiglio un'area del Central Park, ci sono tanti ragazzini con cui divertirsi. Questo non è il posto giusto per lei.»
Indietreggia impostando la stessa distanza iniziale fra di noi.
Lacrime di rabbia mi pungono gli occhi, minacciando di uscire.
«Secondo lei sono una bambina? Allora apra bene le orecchie signor Harris, perché la stessa bambina che guarda sbavando è la stessa che la manda a quel paese per una seconda volta! Vaffanculo, signor Harris!» Gli urlo spazientita, sperando che nessuno mi abbia sentita.
Mi giro e mi incammino a passo svelto verso l'uscita, con estrema sicurezza, e faccio attenzione a non incrociare il suo sguardo prima di sbattere fortemente la porta.
Scoppio a piangere non appena mi assicuro che non ci sia nessuno nei dintorni.
Mi ero promessa che non sarebbe successo, lo so, ma sono stanca.
Stanca di essere considerata infantile.
Stanca di non ricevere i giusti meriti.
Stanca di persone come lui.
Cerco il mio cellulare per chiamare Lynn, ma non lo trovo.
Stamattina ho dimenticato la borsa, quindi l'ho sempre avuto tra le mani.
Nel bagno non posso averlo dimenticato, visto che ricordo di aver controllato l'orario prima di entrare nell'ufficio.
Mi guardo dietro per controllare il pavimento e non scorgo nessuna traccia del mio cellulare.
Porca puttana.
Devo rientrare di nuovo in quella tomba elegante e guardare in faccia quella mummia di Alexander Harris?
Devo recuperarlo per forza, è un bene primario ormai il cellulare e non sono neanche così sicura che mi verrebbe restituito da parte sua.
Mi faccio coraggio, mi asciugo le lacrime e respiro profondamente cercando di sembrare il più calma possibile.
Abbasso la maniglia velocemente, Alexander è seduto dietro la scrivania con il viso nascosto dal computer.
Gli è bastato alzare gli occhi per incontrare la mia sagoma, ma non gli do nemmeno il tempo di parlare che lo fermo immediatamente.
A passo svelto raggiungo la scrivania, e mi accorgo delle impronte ben visibili delle mie mani che ho lasciato poco fa' e della forma delle mie cosce ben impressa sulla pelle nera.
Maledetta sudorazione eccessiva.
«Avevo dimenticato questo», lo informo, mostrandogli tra le mani il telefono che si trovava alla mia destra.
Non credo volesse dire qualcosa, ma anche se avesse voluto farlo non avrebbe potuto, dato che in un lampo mi giro, ed esco, senza aspettare alcuna risposta.
Questa volta ho lasciato aperta la porta, con l'intento non solo di infastidirlo, ma di lasciargli guardare il mio corpo che si allontana, facendogli rendere conto di quanto possa essere difficile reprimere qualcosa.
Le parole di Lynn.
La sua voce che mi sussurra all'orecchio.
Ora dimmi, chérie, ho soddisfatto le tue aspettative?
Lo sguardo di Alexander.
A lei piace il proibito, signorina Foster. Ne è terribilmente attratta.
Il modo in cui il suo corpo reagiva al mio.
Tutti piccoli elementi che mi confermano l'attrazione che prova nei miei confronti.
Il che è del tutto comprensibile, considerando il mio aspetto.
Ma probabilmente è il fattore scatenante del suo odio nei miei confronti, proprio perché odia ammetterlo.
Esco per la seconda volta da quel palazzo, sperando sia l'ultima.
Per quanto mi entusiasma l'idea di ricevere quei soldi, non sopporterei l'idea di lavorare con Alexander Harris.
Per mia fortuna il bar dove lavora Lynn è abbastanza vicino, raggiungibile con quindici minuti di camminata.
Entro e la prima persona che vedo seduta a chiacchierare con il mio migliore amico e il fratello dello stronzo con cui ho appena litigato.
«Delia! Com'è andata?» Urla Lynn accogliendomi nel migliore dei modi. Lancia uno sguardo alla mia camicia per poi borbottare tra sé e sé: «Aaron Warner perdonala per quei bottoni.»
Da quando ha cambiato religione?
Mi siedo sullo sgabello accanto ad Erik e dopo averlo salutato inizio a parlare a raffica.
Non ci sono clienti, siamo solo io, Lynn ed Erik.
Ho bisogno di sfogarmi, di tirare fuori tutto quello che ho accumulato nell'ultima ora e tra uno shottino e l'altro racconto tutto nei minimi dettagli.
Ogni singola parola, ogni suo gesto e movimento e ogni mia reazione.
Tralascio la parte finale, dove ho dimenticato il cellulare, non vorrei dare un ulteriore motivo a Lynn per prendermi in giro per i prossimi sei mesi.
Nessuno dei due parla, sconvolti dal mio racconto.
Erik mi guarda sorridendo, mentre beve l'ultimo sorso dell'ennesimo drink.
Beve come una spugna quell'uomo.
«Quindi non ho capito, non ti ha assunto?», Mi chiede Lynn alla fine.
«Non l'ha esplicitato, ma credo di no.»
«Guarda che non è andato poi così male, Delia», si intromette Erik.
«Non è andato poi così male? Mi ha dato della bambina!»
«Guarda gli aspetti positivi, il tuo colloquio è stato forse il più lungo di tutta la sua carriera, hai suscitato la sua curiosità, e credo che tu l'abbia notato dalle sue domande insolite. Poi hai detto che ti ha dato il permesso di sederti davanti la sua scrivania?»
«Non l'ho chiesto, mi sono seduta e basta. Dovevo anche chiedere il permesso di usare una sedia? Non sono fatte per sedersi?» Gli rispondo confusa.
Erik mi guarda, e scuote il capo ridendo.
«Hai notato che poco più dietro c'erano delle poltrone immagino. Ecco, lì e dove fa sedere qualsiasi persona che entra nel suo ufficio. Non sopporta la vicinanza con le persone estranee, ecco perché si trovano proprio in quel posto.»
Non riesco a capire, allora perché non ha detto nulla?
Poi che razza di uomo si comporterebbe così con il resto del genere umano?
«Anche se non hai chiesto il permesso, ma indirettamente te l'ha lasciato fare», continua Erik. «Quindi vuol dire che la tua presenza non gli disturba, anzi.»
«Non vorrei mai essere nella testa di tuo fratello, Erik. Letteralmente non riesco a capire nulla quando si tratta di lui, e a malapena ci siamo visti due volte! Come potrei andarci d'accordo professionalmente? Sarebbe impossibile! Forse è meglio che sia andata così», ragiono, mandando giù il quinto shottino.
«Pensa alle mie parole Delia, conosco bene mio fratello, non gli sei stata indifferente, e con te ha superato di gran lunga i suoi standard», mi rassicura Erik sfregandomi la spalla.
«Io ora devo andare, ma mi farò sentire. Vedrò cosa fare per quanto riguardo l'esito. Tu meriti quel posto più di chiunque altro Delia, e oggi gliel'hai dimostrato.», si alza poi, aggiustando i rotoli delle maniche della sua camicia.
«Grazie Erik», gli ricambio il sorriso. «E poi prova a togliere quel palo dal culo di tuo fratello, deve dargli fastidio.»
Mi volge l'ennesimo sorriso mentre indossa i suoi occhiali da sole, e mi rendo conto di quanto sia bello.
Non so da chi abbiano preso, se dalla madre o dal padre, ma si somigliano in un modo spaventoso e visti insieme sembrano essere usciti da qualche film.
Fa' un cenno a Lynn prima di uscire per poi lasciarci soli.
Noto qualcosa di strano in Lynn, sento che mi stia nascondendo qualcosa.
Più che nascondendo, forse omettendo.
O forse è solo l'esaurimento che mi fa brutti scherzi.
Molto probabile.
«Delia guarda che volantini mi hanno lasciato oggi! Ho pensato che ti potesse interessare un evento del genere», mi dice mentre me ne consegna uno tra le mani.
È un evento che si terrà tra qualche giorno al Museum of Modern Art, non troppo lontano da dove mi trovo ora, quindi facilmente raggiungibile considerando che vengo da Lynn praticamente quasi ogni sera.
È il mio museo preferito in assoluto, e visitarlo era la prima cosa che volevo fare appena atterrata in questa città, ma sono stata sommersa da impegni.
Sicuramente ci andrò, sperando io sia libera.
«Grazie Lynn. Tu lavori giusto a quell'ora?»
«Amore purtroppo si, ma divertiti a guardare i quadri anche senza di me!» Mi risponde ridendo, visto che i musei non sono esattamente i suoi posti preferiti in assoluto.
«Guarda che io mi diverto anche in un museo, stupido!»
Passa qualche minuto e iniziano ad arrivare un po' di clienti, quindi decido di tornare a casa e di farmi una bella doccia per alleviare tutto lo stress e la tensione della mattinata.
«Lynn io vado a casa, scusa se non ti aspetto per la pausa pranzo ma ho bisogno di rilassarmi.»
«Tranquilla, ma non dormire, aspettami sveglia, devi ancora raccontarmi i dettagli.»
«Quali dettagli Lynn? Ti ho già detto tutto!»
Beh, non proprio tutto, potrei aver mancato qualcosina...
Ma nulla di interessante, no?
«Non. Dormire. Okay?» Mi punta severo il dito contro.
Mi diverte troppo con quest'espressione e non riesco a fare a meno di ridergli in faccia.
«A dopo Lynn.»
Mentre torno a casa, mille dubbi si intersecano nella mia testa, creando uno scompiglio di idee.
Al diavolo Alexander Harris.
Spazio autrice
Spero che il capitolo vi sia piaciuto!
Vi ricordo che su ig potete trovare la playlist nella mia bio e i tag delle role ufficiali.
Vi aspetto nel box domande🎀
(Giuro che rispondo al box stavolta, l'altra volta l'ho dimenticato totalmente🫠)
Vostra, Lyra.