❗️Avvertenze ❗️
Questo capitolo contiene scene di violenza e rimandi a tematiche che potrebbero urtare la sensibilità di alcuni lettori.
Per tanto, si consiglia la lettura ad un pubblico adulto e consapevole.
"I fuochi fatui della nostra putredine,
sono almeno luci
nelle nostre tenebre"
Il suono di vetri in frantumi riecheggiò attraversando le spesse mura, trafiggendo l'intonaco con grida sottili e ansimi angoscianti.
Dovevano provenire dalla sala.
«Sei una cagna ingrata! Una puttana!»
Lo schiocco di carne contro altra carne risuonò tra le pareti.
«Basta.. ti prego.»
Lacrime.
Terrore ghiacciato.
Ansimi taglienti.
Sussurri spezzati.
«Volevi fottermi ancora una volta, non è così? È lui che vedi?! Dillo! È lui?!»
Il rumore di un altro schiaffo prese il posto di quegli echi ormai lontani dei vetri spaccati.
«No! Ma come puoi pensarlo.. per favore, prendi le medic..»
Un urlo dilaniante.
Una preghiera delirante.
«Ti ammazzo! Ammazzerò te e anche quell'ingrato che hai partorito! Hai capito? Io ti ammazzo!»
Uno spiraglio.
Il cigolio di una porta che si apre.
Lo scricchiolio del legno.
L'occhio di un bambino che spia.
La mamma era così bella.
Ma aveva la faccia dipinta di rosso.
Aveva sempre la faccia dipinta, la mamma.
Un acquerello di nero e viola scuro.
E piangeva spesso.
«Papà, no..»
«Blake, no! Amore.. torna in camera.»
Ancora un urlo.
Un rantolo spezzato.
Il risucchio di un respiro.
Un osso rotto.
«No. Fermo lì.»
«No! Per favore, no! Blake corri in camera!»
«Vieni qui. Subito.»
Era una voce che era una corda.
Era una corda che era un guinzaglio.
Un sigaro tra quelle labbra arcigne e baffute prese fuoco, sprigionando nell'aria l'aroma di tabacco e il sentore di whisky.
«Togliti la maglia.»
I singhiozzi ormai deboli e sottili risuonavano come campane ridondanti, nel silenzio di quella tenuta degli orrori.
«No, no, no..»
La nenia delirante di un carillon rotto.
Scivolava come tempera.
Scivolava come sangue.
Silenzio.
Un respiro incerto.
Un respiro infantile.
«Ho detto: togliti. la. maglia.»
Guardai quel cerchio di brace illuminarsi e spegnersi ad ogni tiro di guancia.
Mi fissai su quella fiamma.
Solo su quella.
Era rossa.
E continuai a vederla anche quando lui si mise alla mia schiena e sentii chiara la prima bruciatura toccare la mia pelle.
Guardai la mamma.
Stava piangendo.
Io non volevo vederla piangere, la mamma.
E allora sorrisi io.
Lo vedi, mamma?
Non mi fa niente.
Lo vedi?
Una stilettata di dolore mi trafisse la carne, l'odore di pelle bruciata si mischiò a quello di alcol e di fumo.
E sorrisi ancora.
Per la mamma.
Fu un dolore dilaniante, ma non piansi.
Non piansi più.
I singhiozzi in quella stanza erano diventati un'eco lontana. Una litania che arrivava ovattata alle mie orecchie.
C'era solo quella fiamma nella mia testa.
Il rosso vivo del fuoco.
E ci fu solo quella fiamma.
Solo quella.
Per anni.
Lo vedi, mamma?
Non mi fa niente.
Anche quando arrivò il dolore.
E le cicatrici.
E ancora l'odore di carne bruciata.
E il sangue.
La fiamma e il rosso.
Il rosso e la fiamma.
Lo vedi?
Non mi fa niente.
Non mi fa niente.
Sorrisi ancora.
È così, che ciò che non ti ammazza diventa ossessione.
«Non potete stare qui. Dovete andarvene.» mi sussurrò Megan all'orecchio, guardandosi intorno con aria spaventata e decisamente agitata.
Non l'avevo mai vista così.
Lei, che l'orgoglio lo portava come quel rossetto rosso e quei tacchi vertiginosi che dovevano essere una tortura allucinante.
Ma alla fine che cazzo ne sapevo, io.
«Che diavolo stai dicendo Megan?!»
Aprì e richiuse la bocca un paio di volte.
Sembrava combattuta.
«Li ho visti arrivare, B.»
Un minuto.
«Chi hai visto arrivare? Cristo, Megan, parla!»
Sentivo la tensione irrigidirmi la mandibola e quasi spaccarmi i denti.
Eris era troppo lontana.
Sarebbe stata sempre troppo lontana, se non accanto a me.
Due minuti.
«Zircon. O chi per lui. La stanno cercando.»
Le afferrai il collo.
Non abbastanza stretto da farle male, ma abbastanza da farle paura.
E la trovai, quella paura, sul fondo dei suoi occhi sporchi di nero e cerchiati di trucco.
Tre minuti.
Avvicinai la bocca al suo orecchio, e percepii la sua gola mandare giù un nodo di ansia e terrore.
«Che cazzo ne sai tu?» ringhiai. «Parla o giuro su Dio che..»
«B..» mormorò quella singola lettera come una preghiera disperata. Guidò con i suoi occhi il mio sguardo, portandolo verso il ventre che stava accarezzando in una maniera strana.
«Per favore.» sussurrò ancora.
Strana.
Troppo strana.
Protettiva.
Materna.
Porca puttana.
Tolsi la mano dalla sua gola come se scottasse.
«Megan, sei..»
«Incinta, si. Non volevo dirtelo così, e non è di certo questo il momento, ma ho bisogno di andare via da questo posto prima che..»
Quattro minuti.
Fu quasi impercettibile.
Un flebile schiocco di fumo nell'aria.
Ma lo sentii chiaramente.
Il suono ovattato di uno sparo.
«No! Aspett..»
Megan tentò di afferrarmi per il polso ma io non c'ero già più. Sentivo i suoi tacchi fastidiosi battere contro il marmo e venirmi dietro, ma non avevo tempo. Non avevo tempo, per lei.
Un presentimento ghiacciato iniziò a inacidirmi il sangue, mi si insinuò conficcandosi nei polmoni come una scoccata di spilli e puntai solo ad una direzione: il bagno.
Eris.
Eris.
Eris.
Pregai a denti stretti.
La porta era aperta.
E lei non era lì.
Cinque minuti.
Cinque. fottuti. minuti.
Era il tempo in cui l'avevano portata via.
Per la seconda volta.
Una scia di sangue fresco imbrattava il pavimento e le pareti in marmo, la serratura della porta era saltata via e se ne stava lì, immersa in quella pozza, completamente distrutta.
Accanto, un cellulare spaccato che non apparteneva a lei era lì per terra, insieme al collare che avevo rotto solo pochi minuti prima.
Il ricordo di Eris che tremava scossa dall'orgasmo mi si conficcò negli occhi, continuando a ripetersi in un loop inquietante.
E più ricordavo più cercavo di memorizzare ogni sua singola espressione, per imprimerla nella mente come un disperato.
Lei, bellissima e tremante, che come una fiamma divampava ed espirava, per me che non merito un cazzo ma.. Dio, se morirei per lei.
Lo specchio di fronte a me sembrò sciogliersi al mio sguardo, perdere consistenza e fermezza come la mia lucidità.
Un conato mi spezzò lo stomaco e appoggiai il palmo contro quella parete fredda, tentando di sorreggere il corpo e tutti gli incubi che lo stavano invadendo come un tornado di ombre taglienti.
E quel dolore passato tornò a bruciare nei polmoni come acido cloridrico, trapassandomi gli occhi come spilli incandescenti.
«Dimmi, Blake.. tu ami la mamma?»
La guardai.
Dormiva sdraiata sul divano.
Aveva la faccia dipinta di rosso.
Aveva sempre la faccia dipinta, la mamma.
Come un acquerello.
«Io.. si.»
Uno schiaffo.
Uno schiocco di lingua.
«Male. Molto male. Ricordi cosa ti ho detto, riguardo all'amore?»
Tirai su col naso.
Ma non piansi.
«Che è una debolezza.. che fa male.»
Una carezza tra i capelli.
«Bravo. L'amore ti abbandona, figliolo. E adesso, invece.. facciamo un gioco.»
Un sospiro spezzato.
Gambe sottili che tremano.
«Dimmi: ami più la mamma, o il tuo dolce e stupidissimo canarino?»
«No papà, per favore..»
«Posso sempre giocare con la mamma, sai?»
«No, no, no! Gioco io.»
«Allora rispondi. Ti ho fatto una domanda, Blake.»
«Io.. io.. la mamma.»
Il cigolio di una gabbia che si apre.
Piccole ali che sbattono nell'aria.
Uno schiamazzo gracchiante.
E poi il fuoco.
E quel gracchiare finì.
Fu uno dei primi pugni allo stomaco,
la prima cicatrice sanguinante,
ma ancora non lo sapevo.
«Lo vedi, Blake? Amare costa sempre un sacrificio, è una punizione.»
Uno sbuffo di sigaro.
Il sentore di whisky.
«E come ci si salva, figliolo, da una punizione?»
Un muto singhiozzo infantile.
Un lamento strozzato.
«Togliendo l'amore.»
«Bravo! E tu non l'hai fatto, oggi.. sai cosa vuol dire questo, vero?»
«Che mi punirai.»
Un applauso eccitato.
Un battito folle.
Un battito folle di mani.
«Bravo, bravo, bravo! Lo sai, figliolo, lo faccio per te.. ora alza la maglia.»
Il fruscio del tessuto che scivola sulla pelle.
Ancora.
Un tiro di guancia e uno sbuffo di fumo.
E poi il fuoco.
Il rosso.
La mamma dormiva.
Potevo piangere, forse.
E se poi si sveglia?
No, no.
Non piango.
Il fuoco.
Quel cerchio e nulla più.
Sorrisi.
Il dolore.
Di nuovo il rosso.
E sorrisi di più.
E ancora il fuoco.
È così, che ciò che non ti ammazza ti avvelena.
Guardavo il mio riflesso allo specchio e non sapevo più chi cazzo stavo guardando, il marmo iniziò a fondersi con le mie braccia.
L'avevano portata via ed io sentivo pezzi di me sparsi ovunque, a ricercarla.
Era la stanza che stava inghiottendo me,
o ero io che stavo perdendo i miei confini?
E lei non era più lì.
E non c'ero più neanche io.
No, coglione.
Torna in te.
Devi tornare.
Ma Eris io me la sentivo fin dentro le ossa.
E a che serviva il sangue che mi scorreva nelle vene, a che servivano gli occhi con cui guardavo la realtà, a che servivano i polmoni se non c'era lei, a respirare la mia stessa aria.
Annaspando allentai il collo della camicia, che era diventato improvvisamente un cappio stretto contro la mia gola.
Il primo insegnamento del Krav Maga è valutare bene le situazioni, aggrapparsi alla lucidità e studiare l'attacco. Ne avevo fatto il mantra che scandiva le mie giornate da una vita, fino a quel momento.
La rabbia mi scorreva nelle vene come lava incandescente pronta a disintegrare intere città, lenta e sinuosa, fino a vederle crollare al suolo come polvere sottile.
Polvere sottile.
A quello, avrei ridotto chiunque l'avesse portata via. E a nulla sarebbero servite lacrimose preghiere e richieste di pietà.
Li avrei scarnificati vivi, avrei inciso in quella carne fresca il nome di lei, per ogni lamento.
Quel nome che si sarebbero portati nella tomba come peccato capitale. E avrei goduto di ogni fottuto brandello.
Tirai un pugno al muro per tentare di sfogare quel tormento a fior di pelle, talmente forte che sentii la carne delle nocche spaccarsi come un acino d'uva tra i denti, colando sangue.
Non ero più lì.
Dove ero?
E lei?
Dove cazzo era lei?
Il buio fu l'ultima cosa che vidi.
Mi inghiottì le orbite, mi si insinuò in bocca soffocandomi.
Un delirio lento che conoscevo fin troppo bene.
Strizzai gli occhi.
Una volta.
Due volte.
Tre volte.
Cayden era lì.
Come cazzo era arrivato lì?
E quanto tempo era passato?
Non c'era più il marmo nero.
Non c'era più il bagno sporco di sangue.
Ma un vicolo lurido e umido.
Ero appoggiato ad un muro ghiacciato e scrostato, seduto per terra.
Un cassonetto sporco se ne stava in un angolo, da cui sbucò un gatto pelle e ossa. Aveva gli occhi vacui e mi guardò soffiandomi, come si guarda uno spettro.
Ma vaffanculo, pure tu.
Cayden era lì.
Era lì.
E doveva aver già chiamato Noah perché, improvvisamente, trovai anche lui al mio fianco.
Mio cugino mi prese dalla nuca, appoggiando la sua fronte alla mia e guardandomi con quegli occhi che avrei riconosciuto tra mille.
«Blake, guardami.» ordinò.
Le mie iridi erano impazzite, il mio stesso corpo era una gabbia da cui avrei voluto liberarmi e vecchi dolori rifiorirono lungo la pelle attraverso la schiena.
Sentivo i polmoni scoppiare e bruciare, il fiato corto ammazzarmi la trachea e sudore freddo impregnarmi i capelli.
«Cayden, non ti sta ascoltando. Dobbiamo portarlo via.» era la voce di Noah.
Era lontana.
«Noah, sta zitto!» ringhiò in risposta.
Ombre.
Erano solo ombre.
«Blake! Ho. Detto. Guardami.» tuonò Cayden.
Sentii uno schiaffo dritto in faccia, mi colpì talmente forte che percepii il collo schioccare.
Un rivolo di quello che doveva essere sangue prese a scorrermi lungo lo zigomo, doveva avermi tagliato con un anello.
Te la rompo, quella mano.
Maledetto bastardo.
Ma io continuavo a non essere lì.
Potevo sentire il catrame dentro cui stavo annegando fioriuscire dagli occhi, ribollirmi in gola e colare denso dal naso come sangue.
Erano allucinazioni, proiezioni della mia mente malmessa, che vagava improvvisamente smarrita e combattuta tra vecchi ricordi e dolori freschi.
Perché ciò che non esorcizzi ti uccide lentamente, e non esiste pace per i demoni dell'infanzia violentata.
«Blake! Guardami, cazzo!» urlò scuotendomi le spalle. «Eris. La porteranno via. La porteranno via e questa volta sarà andata! Hai capito? Andata, Blake!»
Andata.
Eris.
No.
No no no.
Non potevo permetterlo.
Non potevo permettermelo.
Non potevo lasciarmi soffocare, non potevo seguire vecchi spettri del passato perché dovevo seguire lei, che era l'unico futuro che sentivo di voler raggiungere. A tutti i costi.
Sei l'unica superficie che tenterei di raggiungere anche da morto.
E allora fallo.
La voce di Cayden continuava ad arrivare ovattata e lontana, ma arrivò.
E qualcosa sembrò improvvisamente rischiararsi nella mia testa, come le nuvole che sbrogliano veloci il cielo, dopo averlo spaccato con i fulmini più crudi.
Finalmente lo guardai.
Era una maschera di controllo, una fottuta colonna. E rividi lo stesso sguardo di quando ero poco più che un bambino, e me ne stavo seduto per ore sopra quel tappeto, con la schiena a pezzi e l'anima chissà dove.
«Ascoltami bene: non puoi permetterti di crollare. Dobbiamo andarla a riprendere e ho bisogno che tu sia lucido. Dobbiamo esserlo entrambi. Ok?»
Aveva ragione.
Dovevo tornare lucido.
Presi l'accendino dalla tasca e liberai la fiamma familiare che mi accompagnava da una vita.
Cayden mi prese il polso, bloccandomi con il dolore imbevuto negli occhi.
«È necessario?» la sua voce si spezzò.
«Non ti sei ancora rotto il cazzo, di chiederlo?» ringhiai a denti stretti.
«Lo faccio io.» mi prese l'accendino dalle mani e riattivò la fiamma, alzai un lembo della maglietta che indossavo scoprendo il fianco.
L'avvicinò alla mia pelle e il bruciore dilaniante della carne, che si scioglieva all'incontro con la fiamma, mi ristabilì un battito regolare.
Era questo il fuoco, per me.
Era questo il dolore.
Martirio e liberazione.
Regolazione emotiva.
Questo era il termine che sputavano quegli specialisti del cazzo. Si vantavano tanto di poter capire, di scavarti nella testa e pescare presuntuosi tutte le risposte per te.
Ricerca di attenzioni, forse.
Ma vaffanculo.
Non c'avevano mai capito un cazzo.
A me serviva, quella fiamma.
Come glielo spieghi, a quei cretini incamiciati, che il fuoco non brucia i tessuti ma i ricordi?
Non scioglie la carne ma i tormenti?
Non dilania la pelle ma le violenze?
Quei giochi inquietanti io li sentivo ancora sibilare nelle orecchie, quei sigari del cazzo io li sentivo ancora spegnersi sulla pelle.
E per un inquietante scherzo del destino, come un drogato, era proprio quel bruciore adesso che ricercavo e che riusciva a riportarmi alla realtà, a farmi riacquistare il controllo.
Tu non mi brucerai più.
Lo farò io.
E continuerò a sorridere.
Dipendente.
Era questo, che ero, dal fuoco e da quelle iridi verdi che si erano mostrate a me, precedute da passi delicati in scarpette rosse da bambola.
Era lei, che scandiva i miei battiti.
Era lei, che custodiva i miei sogni quando io non potevo permettermi di averli.
E poi era andata via.
Portandosi dietro il mio cuore, ogni mio sogno e ogni mia stupida speranza.
Un corpo dilaniato.
Mutilato della sua parte più pura e integra che, dal primo giorno, era sempre stata lei.
E non servì più a niente la carta colorata.
Non servirono più a niente gli origami.
Non servì la musica e non la chiave di quella stanza, custode dei bambini che non eravamo più.
Ma adesso?
«Blake, parlami. Sei con me?» mi chiese Cayden.
Presi una boccata dell'aria sporca di quel vicolo umido. Chiusi gli occhi.
Ma riuscivo lo stesso a vedere nei suoi il dolore per quel fuoco, quello che non provavo più io.
E pensai che era quasi un controsenso, affidare l'anima a lui, alla persona più inaffidabile agli occhi di chi lo conosceva oltre quella facciata di controllo e calma apparente.
Ma c'era sempre stato Cayden.
«Ancora.» ringhiai.
Vidi la sua mandibola contrarsi, i suoi occhi inumidirsi.. ma non protestò.
Avrei sempre vinto io.
Il click dell'accendino.
E ancora il fuoco.
Il bruciore mi sciolse la carne, una scarica elettrica mi sfrigolò tra le vene e tornai a respirare. Quella fiamma ustionante disperse tutta la nebbia che sentivo oscurarmi gli occhi, che volò via insieme al fumo.
Un dolore nuovo per uno vecchio.
Una ferita per una cicatrice.
«Sei qui?» adesso sentivo perfettamente, la voce di Cayden.
Annuii. «Sono qui.»
Appoggiò di nuovo la sua fronte alla mia e mi circondò il collo, chiudendo gli occhi e chiedendo perdono per un dolore che avevo desiderato io.
L'odore di bruciato era ancora nell'aria ma presto sarebbe andato via.
Presto sarebbe andato via.
Io, invece, ero tornato.
Quando mi rialzai, vidi Noah con il telefono in mano mentre cercava di entrare nel sistema di sorveglianza.
Non chiesi come avevo fatto a finire lì, sapevo già la risposta. Se ne erano occupati loro. E la prova evidente era il telefono rotto ritrovato in bagno che era ora tra le sue mani, avvolto da una busta di plastica.
Feci un cenno verso Megan, che vidi arrivare titubante e restare lì, incerta e insicura, immobilizzata all'angolo di quel vicolo.
Era ovvio, che ci avesse seguiti.
«Lei viene con noi.» la indicai.
Cayden seguì il mio sguardo, osservando la ragazza mentre si stringeva dentro al cappotto bianco.
Corrugò la fronte, perplesso.
«Blake, ma che stai..»
«È incinta.»
Qualcuno si strozzò con la propria saliva, e girandomi notai che quel qualcuno era Noah.
Aveva gli occhi decisamente fuori dalle orbite e mi guardava come se avesse appena ingoiato uno shot di cianuro.
«Ma che cazz..»
«Noah, ti sembra il fottuto momento?» ringhiai.
«Ah, beh.. certo. D'altronde avremo sicuramente nove mesi per parlarne.» disse ironicamente, alzando le spalle e continuando concentrato ad osservare lo schermo.
Sentii qualcosa insinuarsi tra le costole, un fastidio cieco a quel pensiero, che sembrò scavarmi e trafiggermi ad ogni boccata d'aria.
Ma come cazzo era possibile.
No, non poteva esserlo.
Ma non avevo tempo.
Non avevo stramaledetto tempo, per quello.
Quando parlò, il viso di Cayden era invece della stessa tonalità dei suoi capelli.
Un morto in piedi.
«Noah.. per quanto vorrei proprio parlarne anch'io, ti conviene smetterla prima che ti faccia fuori.» lo fulminò. «Vado a prendere la macchina. Aspettatemi qui.»
Il silenzio che piombò in quel vicolo bruciò quasi quanto l'ustione fresca che sentivo grattare contro il tessuto della camicia.
E venne rotto solo qualche minuto dopo, dal rombo della macchina di Cayden.
Mezz'ora dopo eravamo nella depandance di Bloodstone Manor. L'evento era stato immediatamente sospeso, dopo l'allarme della sicurezza al suono ovattato dello sparo e alla vista del sangue, poco dopo l'entrata furtiva di Noah in quel covo.
Era molto più sveglio e abile di quanto volessi ammettere e, in quel momento, ringraziai mentalmente quei due stronzi che da una vita mi coprivano le spalle.
«Ho controllato, ci è voluto un po', cazzo. Quel posto è una fortezza di codici.» sbuffò Noah davanti al computer portatile.
«Eris si è ritrovata in bagno con lui. Si fa chiamare Viper ed è lui che ha legami stretti con Zircon.» continuò a battere quei tasti come se avesse una guerra aperta proprio con quelle lettere di plastica.
«Eccolo! Qui.» indicò con il dito un punto preciso in quello schermo. «Si è tolto la maschera, il coglione. Aveva ragione quell'uomo, è una mina vagante e decisamente uno sprovveduto.»
Io e Cayden scattammo in sincrono, puntando lo sguardo verso lo schermo. Cayden restò impassibile, un po' turbato e chiaramente pensieroso, ma impassibile.
Io trattenni il respiro e strinsi il pugno, dove le nocche già aperte tiravano da fare schifo e mi ricordavano la mia perdita di controllo.
«Aspetta. Torna indietro.»
Noah mi guardò perplesso.
«Riconosci qualcosa?» chiese.
«Conosco lui. Zooma il viso.» mi avvicinai per studiare meglio quel volto. E il pugno arrivò dritto sulla superficie del tavolo, facendolo tremare. «Figlio di puttana! È Jason. Il ragazzo di Aaron.»
«Porca troia..»
«Quando esce da quel cazzo di bagno, dobbiamo tirare fuori tutto ciò che sa a Megan.» ordinò Cayden.
«Dobbiamo parlare anche con lui, con Aaron. Farci dire tutto ciò che sa.» osservò Noah.
«Si, lo faccio io.» fu Cat, a parlare.
Era appena entrata dalla porta ma era già perfettamente entrata in gioco.
L'avevamo aggiornata per telefono mentre tornava dal Poison e dalla postura si vedeva chiaramente quanto fosse già profondamente controllata. Addestrata a mantenere la calma.
«Julian dorme tranquillo. Sono appena andata a controllare.» continuò guardandomi negli occhi.
Le avevo chiesto io di farlo.
Un vecchio istinto dai tempi lontani.
Avevo bisogno di saperlo.
Di sapere che mio fratello era qui.
Al sicuro.
Almeno lui.
Annuii.
Ci guardammo per qualche secondo e sentii chiaramente le sue parole non pronunciate.
Dove tutti vedono un attacco,
tu guarda un bersaglio.
Era un mantra che mi ricordava quei giorni lontani, passati a conoscere i miei angoli ciechi.
E lo sapeva fin troppo bene, lei.
«Ma non ha lasciato con lui l'edificio. Guardate qua.» Noah richiamò l'attenzione di tutti, girando lo schermo in modo che riuscissimo a vederlo meglio. Davanti a noi, altre immagini delle telecamere. «Ci sono due uomini diversi in questa ripresa, e ognuno ha caricato sulle spalle un corpo.»
«Un complice con alle spalle un'altra ragazza?» tentò Cat.
Scossi la testa.
«C'è qualcosa che non torna. Dobbiamo capire cosa cazzo c'è che non torna!»
«Dobbiamo venire in possesso delle liste degli ospiti, dei nomi in codice. E controllare tutte le altre telecamere. Ci vorrà una notte, prepariamo diversi caffè.» decise Noah.
Mi sentivo maledettamente impotente.
La mia mente mi aveva fottuto proprio nell'attimo in cui avrei dovuto muovermi più velocemente, cercare tra quei corridoi del cazzo chiunque l'avesse presa.
Invece no, il blackout del delirio.
Vaffanculo.
Avevo le mani iniettate di adrenalina e i muscoli che vibravano, scariche elettriche mi friggevano il sangue e il desiderio di ammazzare chiunque mi capitasse a tiro aveva ormai già invaso ogni mio pensiero.
Ed era meglio pensare a quello.
Alla rabbia.
Perché se mi fossi, anche solo per un misero secondo, permesso di pensare a cosa avrebbero potuto farle, io avrei smesso di desiderare di uccidere. Avrei iniziato a desiderare di morire.
«B?» fu Cat, a richiamare la mia attenzione.
Alzai gli occhi e la trovai accanto a me, con una sigaretta spenta tra le labbra e una in mano, allungata verso di me.
L'afferrai e tirai fuori lo stesso accendino che aveva avuto tra le mani Cayden solo mezz'ora prima, accendendo la sua e poi la mia.
Mi fece un cenno con la testa.
«Andiamo fuori.»
La seguii in terrazza, mi appoggiai con i gomiti alla ringhiera di legno e sbuffai una boccata di fumo, che non servì a placare il cuore che sentivo spaccarmi il petto e pompare rabbia.
«La troveremo.» sussurrò decisa Cat.
Buttai fuori un'altra boccata.
«Certo che lo faremo. Non c'è un'alternativa.» dissi a denti stretti.
Osservò il lago per qualche secondo, lasciandomi il tempo di provare a respirare, prima di parlare.
«Ti ricordi la sera che ci siamo conosciuti?»
«Chi se la dimentica, Cat. Mi hai tirato una gomitata in bocca.» e poteva sembrare quasi impregnata di velata di ironia, quella risposta, se non fosse per l'amaro che mi iniettava la gola.
«Si, beh.. tu mi hai sorpreso alle spalle. Lo sai, come funziona.»
«Qual è il punto?»
«Il punto, è che quella sera abbiamo parlato tanto ed io mi ricordo ogni singola parola. Abbiamo esorcizzato i nostri demoni e abbiamo scoperto le ferite l'una dell'altro, quelle che ci portavano lì, in quel posto dimenticato da Dio per temprare l'anima e il corpo.» inspirò la nicotina e fece scintillare quella fiamma nella notte.
«Io lo so che lei, più di tutto e tutti, è stata la ragione attorno a cui girava tutto il tuo mondo. E quando ti tolgono la ragione i fili che ti tengono ancorato al suolo iniziano a spezzarsi, uno dopo l'altro. Ti fanno perdere la testa, B. E tu sai perfettamente che perdere la lucidità è la cosa più sbagliata che tu possa permetterti di fare.» buttò fuori il fumo e spense la sigaretta.
«Tu e Cayden vi siete fatti una promessa, anni fa. Quella di ritrovare Edith e di riprendere Eris, farla riunire alla sua vecchia vita e al passato di cui non ha ricordi. Ma adesso devi fare tu una promessa a te stesso.. devi prometterti che non lascerai che questo mondo ti spezzi e ti uccida. Che non permetterai a quei fili di stroncarsi e lasciarti in balìa di una mente traumatizzata e di un corpo guidato solo dalla rabbia.»
Inspirai quel fumo come se potesse scacciare via tutti i demoni che mi stavano riempendo la mente. Sorrisi amaramente.
«Forse è davvero così, Cat. Forse è davvero questa l'unica cosa mi ha sempre tenuto in vita. La rabbia.»
«Ti sbagli, B.» appoggiò una mano alla mia spalla, puntandomi gli occhi con un sorriso triste.
«È l'amore.»
L'amore.
Quell'unica parola fu peggio di una coltellata.
«Cat..»
Venni interrotto dal telefono che mi vibrò improvvisamente in tasca, segnalando l'arrivo di un messaggio. Lo tirai fuori mentre spegnevo la sigaretta ormai finita tra le dita.
Numero sconosciuto.
Oggetto: foto
Vicino al lago ghiacciato, tra rovi e spine,
una bimba bionda trovò una libellula fine.
Con occhi di smeraldo e timbro di seta,
un'ombra parlò con voce segreta.
Vieni con me, oltre il cancello arrugginito,
dove i sogni si spezzano e il cielo è smarrito.
La bimba la seguì, senza fare rumore, e sparì
nella notte, senza lasciare un odore.
Prova a trovarla, adesso.
𖥸
Eccoci qui!
Come state?
Ci stiamo addentrando in una parte della storia un po' più cruda, dove troveremo la presenza di TW più o meno espliciti.
Come vi avevo già detto,
questa non è una favola.
Ci vediamo tra pochissimo con un capitolo speciale.. 🥀
A presto,
Lia 𓆦