抖阴社区

43.

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Nei giorni che seguirono, non vidi più né Lili né Dorian. Ne ero felice, non avrei potuto sopportarlo un'altra volta, ma una piccola parte di me sperava ancora che Lili facesse capolino nella mia cella per avvertirmi che si trattava solo di una messa in scena. Ma non accadde mai.

Mi sentivo ferita, usata, delusa. Mi ero sempre preoccupata per lei, avevo sempre provato un forte senso di colpa nei suoi confronti, l'avevo considerata una sorella.

La notte non facevo che incubi. Sognavo Lili e Dorian divorarsi l'un l'altro; la sognavo banchettare sui corpi dei miei fratelli, la sognavo sbranare il mio cadavere.

Ero accucciata ad un angolo con il viso pigiato contro la parete, quando sentii qualcuno avvicinarsi. Qualche istante dopo, venne attivato il sensore che permetteva di aprire la porta in vetro e una guardia irruppe nella mia cella.

Mi voltai di scatto verso l'uomo e gli lanciai uno sguardo che probabilmente lui interpretò come carico di pazzia. E chi poteva dargli torto? Avevo i capelli sporchi e arruffati, dei residui di sangue secco agli angoli della bocca, le nocche gonfie a furia di prendere a pugni la porta, caviglie e polsi corrosi dalle lacerazioni della corda che mi teneva legata, occhiaie profonde e gli occhi fuori dalle orbite.

– Alle docce. – disse l'Assaltatore.

Mi voltai lentamente, tornando a premere la guancia contro la fredda parete di metallo.

– Alle docce! – ripetè strattonandomi per i capelli e tirandomi in piedi.

Mi afferrò per i polsi e mi trascinò fuori dalla mia cella. Mi condusse lungo i corridoi della grande galleria, che formava una sorta di ragnatela, e tutte le persone che incontravo arricciavano il naso per il maleodorante odore che emanavo.

Mi voltai ad osservare l'Assaltatore che mi teneva stretta e notai per la prima volta un simbolo cucito sulla sua spalla: un ragno a sei zampe. A quel punto feci caso anche agli altri Assaltatori e trovai lo stesso ragno su ognuna delle loro divise.

Dopo qualche minuto, arrivammo alle docce comuni che fortunatamente erano deserte.

– Lavati. – mi disse l'Assaltatore con un ghigno divertito.

Davanti a lui? No, mai.

– Voltati. – risposi.

– Ho detto: lavati.

– Ed io ti ho detto: voltati. – ringhiai con rabbia.

L'Assaltatore alzò le mani fingendo spavento e si girò dandomi le spalle.

A quel punto mi venne in mente un'idea, un'idea pazza e pericolosa che probabilmente non mi avrebbe portata a nulla.

Saltai sulla schiena della guardia. L'uomo cercò di scrollarmisi di dosso sbattendomi contro le pareti. Ogni colpo mi causava dolori lancinanti in tutto il corpo, ma riuscii a restare incollata all'Assaltatore.

– Stupida ragazzina!

Mi afferrò per un braccio cercando di staccarmi dalla presa. La sua forza era senza ombra di dubbio superiore alla mia, avevo solo una possibilità: conficcai le mie unghie spezzate nella sua carne, mi spinsi leggermente in alto e, come una bestia selvaggia, gli staccai un orecchio a morsi.

L'Assaltatore cominciò ad urlare ed io mi lasciai cadere a terra. Approfittai del momento in cui l'uomo teneva gli occhi chiusi e le mani sopra l'orecchio sanguinante, per sfilargli la pistola dalla cintura.

Gliela puntai alla fronte, pronta a premere il grilletto. Mi fermai appena in tempo.

Se sparo il rumore attirerà gli altri Assaltatori, ed io non avrò più altre possibilità.

L'uomo era in ginocchio, del liquido denso e scuro gli colava lungo la guancia e sulla gola, fino ad imbrattare il colletto della sua divisa. Aprì i suoi occhi rossi iniettati di sangue e fece per alzarsi. Con tutta la velocità di cui ero capace, mi avvicinai e lo colpii alla tempia con il calcio della pistola. La guardia cadde a terra, svenuta. Afferrai il pugnale che teneva alla cintura e mi liberai in fretta delle corde che mi tenevano legata.

Non mi restava che andare a cercare i miei fratelli.

Percorsi a piedi nudi decine di vicoli tutti perfettamente identici. Ad ogni rumore che sentivo, mi nascondevo in qualsiasi anfratto riuscissi a trovare. Camminai fino a quando non mi ritrovai davanti ad una porta dietro la quale proveniva della musica. Più che musica, somigliava ai suoni della natura: l'acqua che gorgoglia, il vento che soffia tra le foglie secche e la pioggia che batte contro il terreno.

Alla maniglia era appeso un lucchetto aperto. Spinsi lentamente la porta e mi infilai nella stanza.

Dio mio...

Quello che vidi mi lasciò senza fiato.

La stanza era enorme, sembrava una classe. Centinaia di banchi di legno erano allineati uno davanti all'altro, decine e decine di bambini erano compostamente e silenziosamente seduti al loro posto. Indossavano dei caschi neri che producevano un ronzio, tenevano lo sguardo fisso davanti a loro, intanto che disegnavano immagini colorate senza puntare gli occhi sul foglio che avevano sul banco. Tutti loro avevano età diverse, alcuni sembravano troppo malati perfino per tenere gli occhi aperti, altri erano fortemente deperiti, mentre altri ancora sembravano, per il momento, in perfetta salute.

Trattenni l'aria nei polmoni, incapace di respirare, intanto che con gli occhi cercavo i miei fratelli. Come una visione divina, seduto tra altri ragazzi più o meno della sua età, vidi mio fratello.

– Michael... – mi uscì in un sussurro tra le labbra.

Corsi verso di lui facendo attenzione a non urtare gli altri bambini. Quando lo raggiunsi, la prima cosa che notai fu la sua pelle squamosa, le occhiaie profonde e il viso scavato.

– Michael. – lo chiamai.

Ma lui continuò a tenere lo sguardo dritto davanti a sé, intanto che le sue mani si muovevano freneticamente sul foglio bianco. Stava disegnando qualcosa, di primo impatto mi ricordò l'orfanotrofio.

– Michael! – ripetei scuotendolo, ma non riuscii a  strapparlo a quello stato di ipnosi.

Afferrai il caso che aveva sulla testa e glielo tirai via. Inizialmente sembrò spaesato, si guardò intorno e, quando mi vide, cominciò a singhiozzare. Mi si lanciò addosso e mi strinse in un abbraccio che mi bloccò il respiro.

– Sei venuta! – esclamò tra le lacrime, con in viso affondato nei miei capelli.

– Sono qui, Michael. Dove sono gli altri?Dobbiamo sbrigarci! – dissi, cercando di non lasciarmi travolgere da quel momento di dolcezza. Non c'era tempo.

A quelle parole, Michael cominciò a piangere ancora più violentemente – Sono morti. Sono rimasti solo Claudia e Georg! – rispose con la voce che gli si spezzava tra una parola e l'altra.

Il mio cuore si frantumò in milioni di minuscoli pezzi.

– Dove sono? – chiesi, sforzandomi con tutta me stessa a non cedere proprio in quel momento.

Michael alzò la testa e si cercò intorno. Poi indicò un punto della classe.

– Sono lì! – esclamò.

– Va bene, aiutami. Dobbiamo fuggire via di qui il più in fretta possibile.

Raggiunsi i due bambini più piccoli e liberai anche loro dal casco. Come Michael, presero a piangere sempre più forte, le loro guance mi ricordarono dei fiumi in piena. Li strinsi forte al mio petto e mi riempii le narici del profumo dei loro capelli.

– Sono qui. – li rassicurai – Dobbiamo andare! – li afferrai per le loro piccole mani e mi diressi, insieme a Michael, verso la porta dalla quale ero entrata.

Prima che la potessi raggiungere, questa si spalancò e apparvero due Assaltatori. Sentii pulsare la pistola che avevo nascosto sotto la maglietta e il pugnale nei pantaloni, stavo per estrarla, quando le due guardie si spostarono di lato per lasciar passare Dorian, aveva uno splendido e disgustoso sorriso stampato sulle labbra.

– Julia, pensavo di essere stato chiaro. Detesto quando vengo disobbedito.

NECTARDove le storie prendono vita. Scoprilo ora